[15 ottobre] Una svolta mancata

I fatti del 15 ottobre sono già preda dei media di regime e dei politicanti in cerca di una poltrona. Eravamo a Roma e vogliamo darvi la nostra versione dei fatti e qualche considerazione sparsa su quanto accaduto e non-accaduto. Premettiamo che non riteniamo facile un giudizio sul bilancio di questa giornata, poichè troppe cose ancora ci sfuggono e altre ci risultano non del tutto chiare.

Graffito "Le monde est nous"

Una pratica come quella di ieri non è sbagliata in sé. Ci riferiamo principalmente allo scontro diretto e alla pratica “violenta”, mentre non abbiamo apprezzato la distruzione delle macchine (eccezion fatta per i SUV, oggettoni inquinanti che ci piacciono solo quando bruciano), né la distruzione della Madonna di gesso, fuori luogo nel contesto anticapitalista di ieri. Non sbagliata in sé, dicevamo, questa pratica, questo modo d’agire… ma perchè a Piazza San Giovanni? Perchè non puntare dritti verso Montecitorio e ingaggiare lì, casomai, guerriglia?

Non sappiamo bene cosa sia accaduto, perchè una certa tattica non sia stata messa in pratica nonostante l’organizzazione. Le ipotesi sono infinite, ma siamo convinti di un fatto: se riot deve essere, sia riot serio, o ci si aspetta forse uno Stato docile che lasci scassare quel che si vuole, a patto che resti dove gli fa comodo? Quando questo accade, ci sorgono sempre dei dubbi sulla genuinità dello scontro.

Non fraintendete. È assurda la teoria dei 100/200/dite-voi-un-numero infiltrati, è impensabile che tutti i manifestanti del riot fossero digossini, fasci o vattelappescà. Questa è roba buona per cigiellini impuntati e ex-disobbedienti (sottolineamo l’ex, abbiamo sentito commenti molto più ponderati e interessanti sui fatti di ieri da parte di alcuni compagni disobbedienti che da certa autonomia). La verità è che ieri c’erano tante individualità con ottimi motivi per ingaggiare una battaglia, ma hanno sbagliato obiettivo e luogo dello scontro. Se tutto quanto accaduto fosse scoppiato in altro luogo, appunto quello di cui si parlava prima (la via per Montecitorio), la reazione del corteo più grande sarebbe stata diversa. E non è detto che qualcuno degli indignati, magari sprovvisto di casco ma in giacca e cravatta, non avrebbe provato ad accodarsi.

Ripetiamo anche una constatazione già espressa riguardo i fatti del 14 dicembre: questa faccenda della singola giornata di lotte lascia un po’ con l’amaro in bocca. Se una pratica simile può essere utile, deve essere portata avanti per giorni. Ma è pur vero che in un posto come la Grecia, quando scoppiano i riot, o nel fu Egitto delle rivolte contro Mubarak, c’è un Paese bloccato da scioperi generali che a volte durano 48 ore…

Magnatev' o padròn'

In caso di languorino, mangiare il padrone

Per quanto riguarda lo sfasciare vetrine delle banche: beh, non cambieranno certo l’ordine delle cose, di sicuro le direttive di Draghi non verranno ritirate perchè due-tre persone hanno sfondato un vetro, però a questo punto dovremmo criticare qualsiasi atto simbolico, compresa l’occupazione delle banche, breve o prolungata che sia. Il che forse non sarebbe negativo, visto che di atto simbolico in atto simbolico non riusciamo ancora a produrre un atto concreto, che metta del tutto in crisi lo stato di cose vigente.

La speranza è che dalla giornata di ieri non se ne esca come 10 anni fa dal G8 di Genova. Al tempo non c’eravamo, troppo piccoli per capire cosa stesse accadendo, ma testimonianze e discussioni (molte delle quali carpite al decennale commemorativo) ci hanno fatto intendere che in quelle giornate il movimento altermondialista, nelle sue varie declinazioni, veniva accantonato e si chiudeva una stagione di lotte. Noi non troviamo contraddizioni in chi partecipa ai riots e contemporaneamente si considera parte di questo grande ed eterogeneo movimento anticapitalista… Auguriamoci che nei prossimi giorni, in barba alle bestalità e all’oscuramento dei media, possa determinarsi un continuum delle lotte contro le banche e il debito, per l’autorganizzazione.

Verso il 15 ottobre – Prendetevi la strada!

Toma la Calle 15/10/11

Il 15 Ottobre, Roma e tutto il mondo saranno invasi da innumerevoli realtà, tutte accomunate dal disprezzo per un sistema che sfrutta lavoratori, studenti e disoccupati. Realtà che non possono accettare le misure di austerity che i governi mondiali vogliono fargli pagare. Realtà che faranno tremare questo potere!

FACCIAMO SENTIRE AI PADRONI IL FIATO SUL COLLO, ASSEDIAMO I LORO PALAZZI E RICONQUISTIAMO I NOSTRI DIRITTI!

Sabato 15 Ottobre non sarà solo l’Italia, ma tutto il mondo a spiegare ai padroni che non saremo noi a pagare la loro crisi!

Sabato sarà un giorno fondamentale di lotta internazionale. UNIAMO LE LOTTE!!!

Parti con noi sabato, ore 9:00, piazza Garibaldi (Napoli).

Biglietti a 5 euro (con il CAU).

SCENDIAMO PER LE STRADE E LOTTIAMO!

 

La Strada  (a la calle)

Maria Sveglia Gelmini e il nostro Cile

¿Cómo es posible pretender mejorar la educación cuando todavía prevalece la libertad de empresa por sobre el derecho a la educación? [Camila Vallejo]

Napoli, corteo 7 ottobre 2011

Il 7 ottobre napoletano...

La giornata di lotta del 7 ottobre, che ha visto più di 90 piazze italiane assediate da studenti e lavoratori, ha dimostrato una volta di più che anche in Italia c’è  grande determinazione a combattere la crisi dal basso e rabbia, tanta rabbia. Più che indignados, siamo incazzados (il Fatto Quotidiano ha parlato di “schifados”). Devono averlo capito anche quelli del Ministero dell’Istruzione se la signora ministro Maria Stella Gelmini si è detta <<pronta ad ascoltare i ragazzi>> [la Repubblica, 9 ottobre 2011].  Ehi! La Gelmini si accorge dell’esistenza di rivendicazioni studentesche dopo 3 anni di lotta e contestazione ininterrotta, con ovvi picchi nei mesi di ottobre e novembre. La Gelmini si accorge anche che le sue “riforme” non sono nient’altro che una sfilza di tagli all’istruzione – e dire che lei per prima ha sempre sostenuto il valore di queste scelte!

Maria Sveglia Gelmini dimostra di aver capito poco la protesta di questi anni, o almeno di aver “dato ascolto” soltanto a quelle frange più esplicitamente corporative alle quali andrebbe benissimo un ritorno al modello consueto di università. <<Difendendo lo status quo scolastico i ragazzi difendono una politica egoistica>> – la signora ministro ha ragionissima. Il problema è che una larghissima parte del movimento NON intende combattere la riforma Gelmini per riportare tutto a com’era prima. Al contrario, la proposta di un diverso tipo di organizzazione scolastica è arrivato a un punto tale che ha reso necessario un ripensamento della società tutta, contribuendo alla messa in discussione del modello economico, politico e sociale al quale questa prima fase della globalizzazione (e il capitalismo nella sua storia) ci ha abituati.

Tra l’altro non è molto difficile avere dubbi sulle buone intenzioni della signora ministro, e spieghiamo perché. Quando abbiamo saputo della volontà di ascoltare gi studenti, ci è subito venuto in mente il Plan salvemos el año escolar di marca piñeriana. Il governo cileno, nel tentativo di piegare una protesta che ha ormai assunto posizioni radicali e dimensioni eccezionali, ha tentato di negoziare le rivendicazioni del movimento studentesco a un “tavolo di dialogo”, promettendo contemporaneamente espulsioni e allontanamenti coatti dalle scuole agli studenti in mobilitazione. I compagni cileni hanno sabotato questo palese intento di pacificare un momento di conflitto che acquista sempre più consenso da parte di vasti strati della popolazione. Alle manifestazioni non è difficile trovare operai e studentesse, professoresse e infermieri, precari e pensionate. E i cortei cileni, lo ricordiamo, devono fronteggiare una repressione degna del regime di Pinochet.

Cile, corteo 6 ottobre 2011

...e il 6 ottobre cileno

Che tra Cile e Italia ci sia più di un presidente liberista impomatato in comune non è soltanto una nostra impressione. Camila Vallejo, una delle rappresentanti più combattive del movimento studentesco cileno, si esprime così su quanto sta accadendo in questi mesi in Europa: Rispetto la loro lotta, poiché si vede sin da qui che è una lotta contro gli effetti di una crisi economica in cui pochi chiedono ai settori più vulnerabili della comunità di pagare. Credo che ci siano due elementi in comune: da un lato la critica alle istituzioni politiche e alle elites che le controllano, dall’altro l’uso delle reti sociali come spazi per la diffusione delle idee del movimento e per organizzare la mobilitazione [da un’intervista a cura di Acmos.net]. Istituzioni politiche che, aggiungiamo noi, condividono precisi progetti di privatizzazione e di smantellamento della spesa sociale. Per quanto riguarda il secondo punto che la compagna Vallejo rileva, non possiamo che concordare: stiamo assistendo ad un fare-movimento che non solo si organizza e si diffonde tramite il Web, ma anche e soprattutto al costituirsi di una rete globale di movimento nella quale è possibile trovarsi e scambiarsi pratiche ed opinioni con attivisti cileni, greci, islandesi, tunisini e chi più ne ha, più ne metta.

Facciamo come in Cile!, andiamo dicendo da qualche tempo a questa parte. Riteniamo fondamentale continuare la mobilitazione studentesca su questa linea, coinvolgendo quante più categorie di sfruttati possibile e evitando di impigliarsi nella rete dei tavoli di discussione calati dall’alto da ministeri e governo. Non abbiamo un passato da difendere, abbiamo un mondo da prenderci! Verso il 15 ottobre!

El pueblo instruido (jamas serà vencido)

Luchar para estudiar, estudiar para luchar. [da uno striscione studentesco cileno]

Il Cile vive da tempo una situazione di fermento politico e sociale. La mobilitazione studentesca si unisce ad altre situazioni di protesta, come quella degli indigeni mapuche che da anni subiscono continui soprusi e si vedono privati delle loro terre, militarizzate e consegnate al grande capitale. C’è un motivo ben preciso se in Cile le questioni sociali hanno portato a continui scioperi della fame (forma di protesta adottata sia dai mapuche che dagli studenti), cortei e manifestazioni di proporzioni incredibili e, non ultima, ad una ripresa del movimento anarchico. Questo motivo è la contraddizione di fondo che caratterizza lo Stato cileno: nonostante abbia il prodotto pro-capite più alto del Sud America, è anche il Paese in cui è più netto il divario tra una minoranza agiatissima ed una maggioranza della popolazione costretta a tirare la cinghia.

Ma ad aggravare la situazione si è impegnato, negli ultimi anni, Sebastian Piñera, attuale presidente del Cile, imprenditore e sanguisuga sociale. A Sebastian Piñera va il grande merito di aver svelato il vero volto del capitalismo dei nostri tempi. Piñera, degno fratello di quel Josè della Scuola di Chicago (per intenderci, l’uomo dietro le privatizzazioni del regime), ha avviato un ciclo di liberalizzazioni coatte sotto il segno del “realismo”: Niente è gratuito nella vita. Privatizzazione selvaggia della scuola pubblica; privatizzazione di alcune industrie come la Codelco, industria del rame a suo tempo nazionalizzata da Salvador Allende; intenzione di privatizzare il servizio idrico… La ricetta “lacrime e sangue” è la stessa in tutto il mondo, e non è forse un caso che questo Pinochet in sedicesimo abbia come modelli Reagan e Berlusconi.

Studenti cileni in lotta

La reazione degli studenti non si è fatta attendere, e ormai da maggio sono in mobilitazione permanente. Centinaia gli arrestati nelle ultime settimane di scontri con la polizia, degnamente tornata ai livelli di brutalità degli anni della dittatura. Un ragazzino di 14 anni, Manuel Gutiérrez Reinoso, è stato freddato dalle forze dell’ordine durante uno sciopero in sostegno agli studenti proclamato dalla Confederaciòn General de Trabajadores.

La lotta degli studenti cileni è la nostra lotta. Una delle piattaforme che circolano sul Web, l’Acuerdo Social por la Educación Chilena, è più che chiara sugli obiettivi da raggiungere. Il sistema scolastico deve essere [riprendiamo questi punti, ai quali abbiamo aggiunto alcune nostre considerazioni, dal testo dell’Acuerdo come riportato su Anarkismo.net]:

  • autonomo e democratico, in modo da salvaguardarsi dalle ingerenze politiche, religiose ed economiche, e organizzato in modo da incoraggiare l’auto-organizzazione nei campi dell’amministrazione e dell’insegnamento. Ovviamente ciò richiede strutture interne più democratiche nelle quali siano garantiti il diritto di partecipazione e la libertà di associazione… e chi sta osservando la lenta espansione del modello Marchionne ha già capito che questi fondamentali diritti sono in pericolo, anche nella scuola;
  • pluralistico, in modo da garantire accesso pubblico e gratuito a fonti d’informazione e conoscenza che permettano agli studenti di affrontare criticamente gli argomenti. La trasmissione della conoscenza deve opporsi a qualunque dogmatismo o pratica d’indottrinamento proveniente dall’esterno;
  • di alta qualità, nel senso che l’educazione deve effettivamente educare, dunque essere uno strumento di solidarietà, tolleranza, uguaglianza, rispetto per le identità e le culture della società e dei nativi (in Cile vi sono diverse comunità indigene, come i già citati mapuche). Non ci stancheremo mai di ripetere che non serve a nulla una scuola, pubblica o privata che sia, nella quale si sezionano libri come fossero cadaveri, senza che la cultura si faccia strumento di critica e cambiamento;
  • capace di formare individui: professionisti, tecnici, intellettuali con capacità critica ed un’etica, uomini liberi preparati all’esercizio della democrazia e socialmente responsabili;
  • gratuita, nel senso che lo Stato deve provvedere alle risorse necessarie per garantire del tutto questo diritto, senza che intervengano restrizioni socio – economiche. La parola d’ordine Università pubblica da sola non basta, dobbiamo chiedere una scuola gratuita!

Sono tutti punti che si contrappongono al progetto di scuola che le destre di mezzo mondo  stanno cercando di costruire. Proprio per questo devono diventare i punti dell’imminente mobilitazione italiana, che dovrà vedere studenti, lavoratori e precari uniti per fronteggiare una manovra anche più rigida di quella piñerana.

Ma Genova è ancora in piedi

Eravamo a Genova, la settimana scorsa, con migliaia di compagni per ricordare quei tre giorni d’inferno del 2001 che resteranno nella storia come la grande rivelazione del vero volto dello Stato post-moderno. Eravamo a Genova per ricordare Carlo Giuliani, non un eroe né un simbolo, ma un ragazzo che preferì scendere in piazza con chi chiedeva un altro mondo possibile al posto di andare al mare; e per ricordare, con Carlo, chi in quei giorni venne picchiato, manganellato, massacrato di botte, torturato, internato, messo a tacere con metodi non proprio democratici. In quei giorni il movimento dei movimenti fu costretto a fermarsi, e solo con grande fatica, tra un contro-vertice di Porto Alegre e uno di Johannesburg, è riuscito a rialzarsi.  Abbiamo voluto ricordare quei giorni con mostre fotografiche e assemblee, come quella, partecipatissima, descritta più avanti;ma soprattutto, con cortei e fiaccolate che hanno attraversato Genova con rabbia e volontà di mettersi in gioco, in azione, in movimento. Ripartiamo insieme da Genova, uniti contro la crisi, per un’alternativa al sistema liberal-capitalista e al pensiero unico.

L’assemblea del 22, un po’ il cuore analitico e programmatico della 3 giorni genovese,  si è articolata principalmente in una serie di interventi volti principalmente a rilanciare le parole d’ordine del movimento altermondialista. Uno è il concetto sul quale occorre focalizzare l’attenzione ed ingaggiare una battaglia per l’egemonia culturale: è il concetto di beni comuni. Francesco Raparelli ha fatto notare come questo processo di egemonizzazione sia già in atto da qualche tempo: ne è la prova lampante l’esito felice del referendum di giugno, che ha visto mobilitarsi non solo alle urne, ma anche nelle pratiche di propaganda e discussione, centinaia di migliaia di persone. Bisogna continuare su questa strada, costruendo e difendendo il comune determinato dalle lotte e dalle resistenze dal basso. Forse potremmo notare che, se dieci anni fa la priorità era la costruzione immediata di un contro-Impero, ora si cerca in primis il Comune, al quale si ricollegano i comitati napoletani per un piano alternativo dei rifiuti e gli attivisti pro-acqua pubblica, il movimento No-Tav (vera “stella” di questo appuntamento) e quello universitario. Sfaccettature fortunatamente molteplici, anche se riferibili alla sola Italia. Ecco, forse dal decennale del più cruento dei G8 ci si sarebbe aspettati una maggiore partecipazione internazionale; ma l’appuntamento da segnare sull’agenda è il Summit del 2013 in Maghreb, dove di certo la partecipazione mondiale non sarà trascurabile. Noi ovviamente ci saremo.

Tuttavia, ciò che ci resterà nel cuore è la bellissima Genova finalmente restituita ai movimenti, agli attivisti dei più disparati collettivi, ritrovatisi lì dove il Potere tentò di archiviare definitivamente un sogno. Strade e creuze nelle quali perdersi senza mai smarrirsi, grazie al continuo incrociare magliette con sopra stampati gli slogan di queste giornate, alla costante presenza di compagni ai quali aggregarsi, o di semplici cittadini che attendevano questa piccola forma di giustizia (siccome quella ufficiale è servita a molto poco) per la loro città. C’è una scena che chi scrive non potrà mai dimenticare: la sera del 23, dopo il grande corteo che ha visto più di 30.000 persone provenienti da tutto il Paese, una piazza intera a baciarsi, ridere e cantare con Alessio Lega gli Stornelli dell’esilio.

Aqui estamos.